Fanno quarant’anni dalla morte di Franco e, in pratica, dalla fine del suo regime. Da allora la Spagna ha dimostrato ad abundantiam di avere adottato la ‘via italiana’ alla pluto-democrazia, fatta di partiti prevaricatori e corrotti, di mezzadria tra capitale e sindacati, di alta spesa pubblica e dunque di molte tangenti. Invece ha respinto il magistero italiano quanto a regolamento dei conti tra vincitori e sconfitti. Da noi nel 1945 i primi usarono le armi della lotta partigiana per una breve e feroce mattanza dei vinti; in più, improntarono al loro settarismo la nuova Costituzione e addossarono allo spirito pubblico i loro valori e canoni retorici.
In Spagna, poco di tutto ciò e molta volontà di riconciliazione. Per cominciare, non si è tentato di abbattere l’istituzione monarchica, imposta da Franco a un paese che aveva scelto la repubblica. Dal canto suo la monarchia ha in vari modi assecondato la defranchizzazione pacifica preferita dal popolo ai metodi dei nostri partigiani e dei loro mandanti politici. Si fossero trovati ad agire in Spagna, morto il Caudillo, i capi della nostra Resistenza è verosimile avrebbero provato a imporre -coi mitra- i metodi e le rappresaglie del Maquis.
Gli spagnoli non permisero questo. Non lo permisero in particolare le sinistre, comunisti compresi. Infatti nell’ottobre 1944, vigilia del trionfo bellico delle potenze antifasciste, il proletariato e la borghesia progressista di Spagna non dettero alcun consenso al tentativo di un segmento comunista riparato in Francia di riaprire il conflitto civile con la penetrazione di un piccolo esercito nella valle di Aran ( Pirenei). Le truppe di montagna di Franco schiacciarono prontamente gli “invasori” guerriglieri, poi ebbero facilmente ragione delle bande partigiane che avevano provato ad agire in aree poco presidiate del territorio iberico.
I lavoratori e i ceti medi politicizzati di Spagna non si sollevarono contro il regime, nonostante l’imminenza della vittoria alleata. Non dettero alcun appoggio alla velleitaria ‘Resistencia’, che ebbe qualche altra manifestazione. Da quel momento il partito comunista clandestino e quello dell’esilio in Francia e in Messico rinunciarono a ogni conato antifranchista. Quanto ai contadini, essi appoggiarono fattivamente con le cosiddette contrapartidas i reparti governativi che snidavano i ribelli sopravvissuti qua e là come nuclei banditeschi, che per mangiare e rifornirsi non potevano che compiere crimini contro le popolazioni rurali che dicevano di rappresentare. Cessò ogni opposizione organizzata, e nel 1956 il Pce proclamò la “Reconciliaciòn nacional”.
Morto Franco si constatò che la transizione dal regime ‘alla libertà’ si era già un po’ delineata negli anni Cinquanta; si era accelerata, oltre che con le aperture all’Occidente e al mercato, coll’ingresso nel governo di Manuel Fraga Iribarne, nel 1962. Che cioè sin d’allora Francisco Franco aveva accettato la logica del futuro (se non addirittura da quando aveva detto no a Hitler nell’incontro a Hendaye, il 23 ottobre 1940).
Risalendo nel tempo, all’agonia del parlamentarismo e del potere dei notabili liberal-conservatori, il 13 settembre 1923 l’incruento colpo di Stato del generale Miguel Primo de Rivera avviò l’esperimento di una dittatura non fascista, al contrario filo-proletaria, appoggiata in pieno dal partito socialista. Durò fino al volontario ritiro del Dictador (gennaio 1930), sei anni nei quali il paese vide, oltre alla cancellazione della vecchia politica conservatrice, vasti piani di edificazione economica e di modernizzazione autoritaria, non accompagnati da fatti di repressione. Il governo del generale cadde per gli squilibri tra le risorse disponibili, alquanto scemate per la Grande Depressione, e per l’alto costo dei programmi di modernizzazione e di ridistribuzione della ricchezza a vantaggio dei ceti umili. Cadde di fronte alla netta ostilità dei banchieri e del patriziato latifondista (cui il generale, marchese e Grande di Spagna, apparteneva). La Dittatura aveva fatto nascere il primo, limitato Welfare della storia spagnola: assicurazioni sociali, pensioni, case popolari, ospedali, opere irrigue, ferrovie, canali.
Ma il vanto imperituro della classe dirigente spagnola fu, nel 1914 e nel 1940, l’aver saputo rifiutare la partecipazione ai due conflitti mondiali. La prima volta fu merito soprattutto di un primo ministro conservatore, Eduardo Dato, che sventò i tentativi delle élites sinistriste di intervenire a favore dell’Intesa. Nella drammatica agonia del parlamentarismo il presidente Dato sarà assassinato (1921) da un anarchico. Tutti sanno le crisi di sistema che nel 1931 portarono alla caduta della monarchia, alla Repubblica sventurata e, cinque anni dopo, alla Guerra civile.
Abbiamo richiamato alcuni momenti del Novecento per evidenziare che gli spagnoli, pur con una storia di turbolenze e di odii, sono stati capaci di più saggezza e più misericordia di altre stirpi. Della nostra, per esempio. Gli spagnoli si sono sgozzati nella Guerra civile, ma quando essa si è chiusa hanno respinto le tentazioni e le occasioni di riaprirla. Si sono salvati dai crimini dei regolamenti dei conti.
Hanno smentito, con una nettezza che non era prevedibile, il tragico pessimismo nazionale del 1898, quando la disfatta per mano americana, con la perdita dell’impero e dell’autostima, era sembrata spegnere l’anima della Spagna. In quegli anni il grande pensiero del ‘Rigenerazionismo’ fiorì su un dolore inconsolabile. Joaquin Costa invocò che si sprangasse il sepolcro del Cid Campeador e che un ‘chirurgo di ferro’ amputasse le cancrene nazionali (per molti quel chirurgo fu Primo de Rivera). Il disperato scrittore e
diplomatico Angel Ganivet, prossimo a suicidarsi, aveva negato che i suoi connazionali potessero mai aspirare a un umile benessere. Miguel de Unamuno, rettore a vita dell’università di Salamanca, aveva incatenato la Spagna ai suoi aspri miti nazionali, al punto che il filosofo razionale Ortega y Gasset lo censurava come ‘energumeno’. Quante volte Ortega ed altri grandi intellettuali del tempo avevano fatto tristi vaticinii di saldatura della loro nazione all’Africa invece che all’Europa?
Un secolo dopo la Spagna appare, è, il contrario dei vaticinii. Ha persino una ripresa produttiva meno anemica di quella italiana: con tutto il nostro dinamismo da Expo. Povero Ganivet, figlio della luminosa Granada, che aveva scritto “Uno spagnolo ricco disgusta”!
A.M.Calderazzi